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Anno: 2023

Arctic Monkeys @ I-Days

Milano, 15 Luglio 2023

Per essere metà luglio a Milano, non fa neppure così caldo, e all’Ippodromo Snai La Maura di gente ce n’è, un’educata calca ammassata ma anche ammansita, forse da quella leggera malinconia che arriva e ti intorpidisce quando le cose belle stanno per finire. Alla fine, gli I-Days Coca-Cola sono un po’ il Glastonbury de noialtri, magari senza fango e mandrie di mucche dietro l’angolo, ma con lo stesso senso di spiritualità, libertà e comunità che solo la musica live, quella bella dei festival, può soffiare nell’aria perché tu lo respiri. 

Ed ecco cosa si respira in questo sabato pomeriggio: una devozione quasi animale, nel senso che nasce proprio dentro l’anima e viene fuori quando si controlla l’ora e ci si guarda intorno e ci si sente piccoli. Quando ci sentiamo piccoli, e anche un po’ adrenalinici, ci rendiamo conto che quello che ci aspettiamo sta per succedere e che intorno a noi ci sono migliaia di persone unite da una comunione di intenti, e tiriamo un sospiro di sollievo al pensiero che ogni tanto possiamo concederci di non sentirci poi così “unici”. 

Allora arrivano gli Omini, Julian, Zak e Mattia, con il loro brit rock perfettamente in tema con i protagonisti della serata che stanno introducendo. Con la musica nel sangue (quasi letteralmente: Julian e Zak sono figli del chitarrista degli Statuto mentre il padre di Mattia è il batterista Alberto Fratucelli), la band piemontese scalda il pubblico in un uragano di freschezza.

Una pausa di riflessione dopo la bomba sganciata dai giovani artisti, e subito scorgiamo Willie J Healey, from Oxfordshire with love. Chissà, forse l’umidità milanese gli ricorda casa: pacifico al limite del flemmatico e perfettamente a suo agio, il musicista britannico classe ’94 canta e suona una carrellata di pezzi dal suo ultimo album Twin Heavy. A lui piace suonare musica che lo fa sentire bene, come dice spesso nelle interviste, e si vede, e si sente, e fa sentire bene anche noi. 

Stacco netto e da un’atmosfera pacata passiamo all’adrenalina, quella massiccia un po’ sporca del punk rock. The Hives riempiono il palco (e non solo le vostre playlist preferite) e ci fanno sentire alcuni dei loro pezzi più energici. Quello della band svedese è un rock puro, adolescenziale, che ci fa tutti regredire ad uno stato quasi primitivo di sana estasi, tra un calcio volante e un lancio di microfono alla Roger Daltrey.

Il sole è da poco calato, il palco è di nuovo vuoto, il vociare più fitto che mai, a me il cuore batte forte e quasi riesco a sentirlo, il battito dei miei vicini sembra veloce quanto il mio. “They say it changes when the sun goes down”, quando il sole tramonta, cambia tutto, e infatti adesso è tutto diverso. 

Camicia bianca, occhiali da sole scuri e capelli all’indietro, marchio di fabbrica, un cenno alla folla in adorazione, e Alex Turner riempie il palco a rapide falcate. Tra giochi di luce usciti direttamente dall’Enterprise, scaglia gli accordi elettrici di Brianstorm seguita dai più grandi successi degli Arctic Monkeys di quando li conoscevamo come un gruppo di strimpellatori di Sheffield. Da Snap Out of It, Don’t Sit Down ‘Cause I’ve Moved Your Chair, a Crying Lightning, un respiro profondo e il frontman indossa la maschera della maturità con alcuni dei branipiù recenti, trascinandoci in un hotel lunare (Four Out of Five) o facendosi più meditabondo (Perfect Sense), senza tralasciare il suo lato più seducente (Why Do You Only Call Me When You’re High, Arabella). 

Potrebbe sembrare fan service ma non lo è quando interpreta i classici Fluorescent Adolescent e Cornerstone (senza lesinare sulla teatralità dei testi). 

Ci sciogliamo non solo per la temperatura estiva ma anche per ballad liriche come There’d Better Be a Mirror Ball e 505 con tanto di palla a specchi calata sul palco. 

Per il gran finale, un encore tra deliri sci-fi (Sculptures of Anything Goes) e flirt ad alto contenuto di chitarre distorte (I Bet You Look Good On The Dancefloor, R U Mine). 

Gli Arctic Monkeys hanno fatto pace con la loro discografia, presentandoci una performance matura ed onesta, con Alex Turner che sa vestire i panni del mattatore, ma sa anche quando spogliarsene per mostrarci la genuina connessione con i suoi brani. Così vicino eppure così irraggiungibile, come una rock star d’altri tempi. 

Gli I-Days Coca-Cola si chiudono con un concerto da 10 e lode.

Iron Maiden @ Milano Summer Festival

Milano, 15 Luglio 2023

Questo non è un concerto.

Questo è una walk down the memory lane, un viaggio nel passato che sa di futuro.

Perchè nel momento in cui Bruce Dickinson, davanti a una folla che urla “Maiden, Maiden, Maiden”, sorride e inizia a parlare di viaggi nel tempo, delle possibilità di attraversare i “Gate of time” (non con una Delorean come in Ritorno al Futuro ma bensì con una Fiat, per rispetto della cultura italiana), io penso a quando, a 15 anni, ho comprato la mia prima maglia degli Iron Maiden, quella di Fear of the Dark, con la speranza di indossarla un giorno ad un loro concerto. Quel giorno è arrivato 13 anni dopo, e l’attesa è stata pienamente ripagata. Ma andiamo con ordine.

Il 15 luglio, si è tenuto, all’Ippodromo Snai San Siro di Milano, The Return of the Gods Festival Milano, durante il Milano Summer Festival: è una giornata estremamente calda e, quando si arriva alla fermata di Lotto per andare agli ingressi, si inizia a realizzare che sì, sta succedendo veramente, che gli Iron Maiden suoneranno davvero quella sera per l’unica data italiana del loro The Future Past Tour. Dal momento in cui si entra effettivamente all’Ippodromo, e fino alla fine, si ha la sensazione di far parte di un’unica grande famiglia: non tanto perché tutti praticamente indossiamo la maglia o un accessorio che richiama gli album della band, ma perché tutti siamo genuinamente interessati a trascorrere una bella serata ascoltando, cantando e venerando questa band metal britannica. Proprio tutti, dai fan sfegatati che seguono il gruppo dagli anni ’80 ai bambini, in spalla ai genitori. C’è una grande energia che, come ci si aspetta, sarà poi pienamente corrisposta dall’incredibile performance live di Bruce Dickinson, Dave Murray, Adrian Smith, Janick Gers, Steve Harris e Nicko McBrain

A scaldare gli animi (in senso metaforico, perché in senso letterario ci pensa il meteo) è una scaletta di band metal europee: The Raven Age (inglesi), Blind Channel (finlandesi), Epica (olandesi) e Stratovarius (finlandesi) si alternano sul palco portando le loro diverse sfumature di metal, ingannando l’attesa degli headliner. Si inizia con l’heavy metal de The Raven Age, che come founder e chitarrista vedono George Harris (il figlio di Steve Harris, bassista degli Iron Maiden). Il suono forte delle loro chitarre e bassi lascia poi spazio ad una declinazione dell’heavy metal, il nu metal, rappresentati qui dai Blind Channel, con quattro album in studio all’attivo e il plus di aver rappresentato la Finlandia all’Eurovision nel 2021 (oltre ad avere una delle bio più belle su IG, aka “Backstreet Boys of the metal scene”). Salgono poi sul palco gli Epica, una delle band di symphonic metal più importanti del panorama. Simone Simons è una sirena che incanta con la sua note alte, e la commistione con la voce death di Mark Jansen rende l’esperienza quasi mistica, considerando poi la forte commistione dei loro testi con tematiche che spaziano dalla spiritualità alla filosofia e fino ai più diversi ambiti della scienza. Nell’andarsene, ci lasciano con la loro cover strumentale di One Day, un brano della colonna sonora di Pirati dei Caraibi, il che da fan del gruppo e delle colonne sonore mi lascia estremamente soddisfatta e ancor più pronta per gli Iron Maiden. Chiudono con letteralmente due brani in chiave power metal gli Stratovarius perchè, avendo avuto problemi con il loro volo, sono arrivati tardi e sono riusciti a regalare al pubblico solo due pezzi, prima di lasciare spazio, puntualissimi alle 21, agli Iron Maiden.

Doctor, Doctor Please parte in playback e poi eccoli, sono sul palco, con lo spirito di chi non vede l’ora sia di suonare al pubblico sia i brani più recenti, tratti dall’album Senjutsu, che i grandi classici, quelli che infiammano (letteralmente, considerati i giochi di fuochi e fiamme che intervallano l’intero concerto) il mondo interno da quasi 50 anni. Rispettando le aspettative che il titolo di un tour come The Future Past può dare, il concerto è un viaggio di 15 brani (della durata di quasi due ore), che ripercorre la loro leggendaria carriera, tra suoni, innovazioni e intuizioni che hanno plasmato il genere metal con un occhio di riguardo verso le avanguardie. Nella prima cinquina di brani, il tema del tempo e del viaggio nel tempo fa da protagonista, con brani come Caught Somewhere in Time e The Time Machine. C’è poi spazio per vedere The Writing on the Wall e per urlare a gran voce “Not a prisoner, I’m a free man”. Bruce Dickinson è un frontman nato: più la folla è grande e partecipe, più lui si fa intrattenitore e direttore di questo coro di voci ed emozioni che nel frattempo è diventato l’Ippodromo Snai San Siro. Non può mancare Eddie The Head, la mascotte della band, che compare sul palco tre volte, una delle quali, intrattenendo una duello a colpi di armi da fuoco (scenografico ovviamente) con Bruce Dickinson stesso. Da Can I Play With Madness poi, è una vera e propria esperienza collettiva in cui tutti cantano, sempre incitati dagli accordi di chitarre, bassi e batteria, oltre che da Bruce, che urla “Milano!” ad ogni ritornello. Storia, cultura e religione si alternano grazie a brani quali Death of the Celts, Alexander the Great e Heaven Can Wait.

La sera ha ormai lasciato spazio alla notte, ma nessuno teme le tenebre quando tutti intonano a gran voce Fear of the Dark. Un ultimo salute su note di brani come Iron Maiden e The Trooper e gli Iron Maiden tornano nella leggenda. Alla quale però, questa volta, ho preso parte pure io.

Three Questions to: Sam Burton

What would you like to inspire in the people who listen to your songs?
I’m not trying to inspire anything in people. I just want to do my best making songs. I want to stay as true as I’m capable of to the process. Everyone has their own response or lack thereof to music when they hear it and it makes no difference to me what that is. I’m just happy to be able to write and share my music. 

What do you like the most of making music?
I couldn’t pick what I like most as I couldn’t imagine giving any aspect of it up by choice so I’ll just say that my favorite right now is the writing process. I enjoy the solitude of it or rather the communion with the self. The process of making songs feels much more meaningful than the songs themselves. When I’m able to search my unconscious and trust what comes through it feels akin to a spiritual practice. I enjoy the sense of purpose and mystery. There can be a peace to it and it can also make me very frustrated and self critical but  I like discovering more about myself through the process. 

Is there any event or festival in particular you would like to play?
I would love to play a show in Palestine. It’s where my father is from. It would be very meaningful to me to play there. 

Cover pic: Kathryn Vetter Miller

Moderat @ Sequoie Music Park

Bologna, 12 Luglio 2023

Serata all’insegna della musica elettronica in quel di Bologna.
Siamo al parco delle Caserme Rosse, nella periferia della città felsinea, dove su questo enorme prato si alternano per quasi tutta l’estate una serie di grandi artisti, internazionali e non.

Dal rock alternativo dei Verdena, ieri sono tornata a sentire un trio berlinese che ormai la fa da padrone nel mondo della musica dance elettronica: sto parlando del super gruppo dei Moderat, formato dalla fusione tra il progetto dei Modeselektor, all’anagrafe Gernot Bronsert e Sebastian Szarzy, e Sascha Ring, in arte Apparat

Ad aprire le danze, una combo made in Italy che non vedevo l’ora di sentire dal vivo, dato che il loro disco è stato un vero gioiellino della musica synth pop degli ultimi anni. Sto parlando del Quadro di Troisi, nato dalla fusione delle grandi menti della cantautrice Eva Geist e dell’alfiere della musica elettronica Donato Dozzy. La voce soave della Geist si sposa perfettamente con la base dance minimalista di Dozzy, creando un tributo a tutta la musica cantautoriale italiana degli anni 80, in principal modo Battiato e Matia Bazar. Ieri, però, ho fatto un po’ fatica ad entrare nel mood giusto, sarà per la luce del tramonto e anche per i cartelloni pubblicitari accanto al palco che, con i loro colori sgargianti, mi distraevano in continuazione. Spero proprio di poterli risentire quest’inverno, al chiuso in un club, dove potrò godere dell’atmosfera onirica giusta.

Finalmente è notte, vengono spente tutte le luci e parte la magia.

I tre sono al buio, s’intravedono solo le sagome sul maxi schermo alle loro spalle, dove verranno proiettati visual con richiami ai vari artwork dei dischi per tutta la durata del concerto. Si parte con un pezzo vecchio, forse il più famoso: A New Error, immediatamente riconoscibile dalle note iniziali e infatti scatena immediatamente un grido di ovazione, e tutti, ma dico tutti, iniziano a ballare. Qualcuno intona ovviamente Felicità di Albano e Romina, due canzoni ormai indissolubilmente legate grazie ad un pazzo ma viralissimo remix (se non sapete di cosa parlo cercatelo su YouTube, mi ringrazierete). Si continua con Rusty Nails, sempre dallo stesso disco Moderat del 2009, con la sua techno ritmata ma mai esagerata, accompagnata dalla voce armoniosa di Apparat. Si passa all’ultimo album, More D4ata, anagramma di Moderat 4.

Devo dire che ero abbastanza spaventata perchè, ascoltandolo da casa, mi risultava un disco abbastanza noioso e piatto, ma dal vivo è tutt’altra cosa. More Love, Copy Copy e Fast Land vengono ancora più ritmate e dilatate, rendendole perfettamente in linea con i vecchi dischi e facendomi rinnegare ogni dubbio. Apparat gioca col pubblico, lo saluta, ci chiede come facciamo a sopravvivere con questo caldo torrido, ma soprattutto, si diverte. Un sorriso a 32 denti stampato in faccia dall’inizio alla fine del live, che rende impossibile non sorridere di conseguenza.

Grande finale con Bad Kingdom, accennata dalla band e immediatamente bloccata, solo per poi farla ripartire in grande stile, e permettendo alla folla di sciogliersi in un ballo frenetico.

Uno spettacolo mozzafiato, regalato da professionisti che si vede che macinano concerti da anni e che sono proprio nati per farlo. Anche l’impianto era perfettamente adatto ad un concerto di musica elettronica all’aria aperta, un dato non scontato. Unica cosa negativa: mi hanno dato la birra in un bicchiere di plastica monouso. In eventi così grandi, nel 2023, bisognerebbe adeguarsi per avere materiali riutilizzabili, il pianeta ci ringrazierà.

Bravi tutti, serata che non dimenticherò facilmente.

In copertina foto d’archivio di Simone Asciutti

Melvins @ sPAZIO211

Torino, 11 Luglio 2023

L’ultima serata della rassegna T!LT, Turin is Louder Today, è stato un appuntamento storico. Per festeggiare i quarant’anni di carriera sono saliti sul palco dello sPAZIO211 i Melvins, storica formazione proveniente dai sobborghi di Seattle e che al grunge ha mostrato giusto le accordature ribassate di King Buzzo, vero trademark della musica di lassù, parola di Soundgarden e tante grazie anche da parte di Nirvana e Mudhoney. Vere e proprie icone viventi, testimoni di un approccio alla musica fatto di tecnica, sperimentazione, inquieta ispirazione.

Era il 1983 quando Roger “Buzz” Osborne, Mike Dillard e Matt Lukin (quel Lukin che ospitava Vedder in fuga) fondavano i Melvins. Da allora un numero imprecisato di artisti si è alternato sul palco e in studio. Presenti nel primigenio Deep Six, raccolta che presentò al mondo Soundgarden e Green River, tra gli altri, spalla dei Nirvana in tour, prodotti da Mike Patton, che spesso li ha voluti vicini ai suoi Mr.Bungle. Hanno collaborato con Jello Biafra, Pixies, Tool, Novoselic. E chiudo con le referenze. 

Da parte loro i Melvins hanno esplorato ogni declinazione del metal, dell’alt-qualcosa, dello stoner, citando decine di fonti, dai Black Flag ai Black Sabbath, in rigoroso ordine alfabetico.

Ma procediamo con ordine.
I primi a salire sul palco sono stati i Treehorn, trio cuneese in bilico tra blues e stoner, affascinante prodotto delle polverose pianure della provincia Granda. Solidi, di mestiere e assolutamente a tema.
I Melvins si schierano con la seguente formazione: chitarra e voce Buzz Osborne, batteria per Dale Crover e al basso Steve McDonald. I nostri si presentano al pubblico sulle note di Take on Me degli A-ha, giusto per sdrammatizzare e far cantare tutti, da subito.
La chioma fluente di King Buzzo al lavoro è tra i tre fenomeni più ipnotici esistenti in natura. Ormai completamente bianca, quando viene colpita dalle luci illumina a giorno le prime tre fila e fa sanguinare gli occhi ai fotografi. Ma è anch’essa parte dello show, che è di una qualità altissima. I Melvins non sono solo rumore, non offrono uno stoner greve e tombale, ricordano più un Bach strafatto di peyote e che ha dimenticato la melatonina. Nello stesso pezzo si cambia tempo, accento, stile, genere, secolo e financo religione.

Non perdono un solo colpo, non una nota fuori posto. La setlist è composta da quindici brani da otto album (incisi una trentina, sia messo agli atti), ed è un menù completo, che sfama ogni appetito, comprendendo anche un omaggio ai Beatles, con una I Want to Hold Your Hand da applausi.
A quasi sessant’anni d’età King Buzzo e i suoi ci hanno regalato un concerto fatto di talento e mestiere. Un gruppo tecnicamente importante e che è stato seminale per buona parte degli artisti degli anni novanta.

Qualcuno a fine corsa si è lamentato della durata dell’esibizione, ma andrebbe loro ricordato che a volte è la qualità a battere la quantità.

Densi, duri e solidi per un’ora e un quarto di spettacolo, io sono uscito col sorriso. 

Damien Rice @ Teatro La Fenice

Venezia, 11 Luglio 2023

Credo ce l’abbiate in mente tutti il dialogo di Pulp Fiction tra Mia Wallace (Uma Thurman) e Vincent Vega (John Travolta), seduti al tavolo poco prima della sfida di ballo, quando lei fa quella domanda sui “silenzi che mettono a disagio”.

Ora, questo nelle intenzioni è un articolo, racconto, chiamatelo come volete, in merito al concerto che Damien Rice ha tenuto ieri sera (11 luglio) al Teatro La Fenice di Venezia, quindi siamo di fronte ad una combo di una potenza incalcolabile: uno dei più grandi cantautori degli ultimi vent’anni in uno dei più bei teatri del mondo.

E nonostante le insopportabili afose temperature di questi giorni tentino di rendere più faticoso e snervante i quaranta minuti di camminata attraversi i campi e le calli della Serenissima, dalla stazione al teatro, ciò che si inscena alle 21:15 è quanto di più vicino io possa pensare alla definizione di incanto.

Una situazione sospesa, dove tempo e spazio tendono ad annullarsi, diventano irrilevanti ai fini dell’esperienza che si sta facendo, dove le variabili in ballo escono dai canonici piani o sistemi per collocarsi ad un livello superiore, dove ciò che conta è ciò che senti, ciò che percepisci, ciò che sei in grado di percepire.

È un live che vive di vuoti, come gli ampi spazi del palco scarnamente riempiti dalla minima strumentazione a supporto dell’esibizione, una postazione centrale, qualche pedale e una manciata di chitarre, alla sinistra una tastiera, alla destra una sedia e il violoncello di Francisca Barreto, tutto attorno a mò di semicerchio pochi fari.

È un live che vive spesso di silenzi, di sottrazione, Damien stesso pare volersi sottrarre agli sguardi adoranti e bramosi di magia del pubblico, è spesso in ombra o illuminato appena da luci laterali o alle spalle, quando non nascosto da una tenue coltre di fumo. 

Il concerto si poggia su di un delicato equilibrio tra Rice e il pubblico, religiosamente in silenzio durante i brani quanto fragoroso al termine degli stessi. Non mancano ovviamente i boati e gli urli di approvazione alle prime note di Older Chest, Delicate, si ride sonoramente negli intermezzi “colloquiali”, specie se l’argomento di discussione sono le prime erezioni giovanili (ok forse questa si poteva omettere…), o se il massimo complimento che riesce a fare della location è un “pretty pretty place”.

Sono forti e sincere le emozioni che si sprigionano in 9 Crimes, dove la voce di Francisca Barreto si avvicina in maniera magica al timbro di Lisa Hannigan, c’è spazio anche per un duetto “a sorpresa”, quando sul palco viene chiamata Greta Zuccoli a cantare Cold Water.

E pare sinceramente sorpreso Damien quando chiede al pubblico con quale brano terminare il concerto, se qualcosa di più soft o forte. La scelta ricade sulla seconda opzione, per cui è la mia preferita, I remember, a chiudere col suo inizio dolce e il finale (letteralmente) stroboscopico un concerto memorabile.

Un applauso che pare non avere fine “costringe” i due musicisti a tornare sul palco, c’è da mettere la ciliegina, ed ecco che senza microfono, ora sì consegnandosi alla platea, Damien Rice dona la sua canzone più celebre, The Blower’s Daughter.

Perfetto. 

Sarebbe stato tutto perfetto davvero.

Ma.

Ricordate il discorso iniziale, quello di Pulp Fiction e del silenzio? 

Io non lo so se il problema sia stato il silenzio che mette a disagio, o se la motivazione fosse un’altra, sciatteria, ignoranza, genuino irrefrenabile entusiasmo, però aver sentito il bisogno impellente da parte di uno spettatore di applaudire mezzo secondo prima che tutto fosse finito, che quel “’Til I find somebody new” appena sussurrato da Damien Rice suggellasse qualcosa di davvero, davvero bello… lo avverto solo io quel fastidio che fatica ad andarsene?

In copertina foto di Aurora Ziani (Damien Rice @ Pistoia Blues Festival)

The Brian Jonestown Massacre @ sPAZIO211

Torino, 10 Luglio 2023

La quarta serata di T!LT, Turin is Louder Today, rassegna di concerti open air proposti dallo Spazio211, vede salire sul palco la band californiana de The Brian Jonestown Massacre.

In realtà non si tratta di una prima assoluta, perché erano stati ospiti della città già nel 2016, durante i ToDays, nella stessa venue.

La serata viene aperta dai Mother Island, gruppo vicentino dedito al rock psichedelico. Definiscono la loro musica ed il loro stile come “il caldo torrido della psichedelia westcoastiana filtrato da una lisergica nebbia britannica”. Fatto è che sono assolutamente in linea con coloro che saliranno sul palco successivamente. 

TBJM sono soprattutto Anton Newcombe, cantante e leader maximo della formazione di San Francisco, figura carismatica, spigolosa e iper creativa, attorno alla quale, negli anni, hanno ruotato qualcosa come sessanta musicisti diversi, alcuni di gruppi blasonati, come The Dandy Warhols e Black Rebel Motorcycle Club. Tutto iniziò nel ’91, quando Newcombe incide un singolo intitolato Pol Pot’s Pleasure Penthouse e diventa di culto nella scena indie californiana. Dopo il disco di esordio rifiuta le majors che si fanno avanti e procede la sua marcia fatta di libertà artistica e stilistica: nel solo 1996 escono tre album, tre capitoli in cui si passa dallo shoegaze al folk, dai Velvet Underground agli Stones, per finire nel country. Seguirono altri album, storie di alcol e droga, rehab e scioglimenti, che però, nel corso degli anni, non hanno impedito alla band di produrre dischi, arrivati al venerabile numero di venti. The Future Is Your Past, uscito a febbraio 2023 è il motivo che ha spinto TBJM in giro per il mondo. 

Il live è uno spettacolo antico e psichedelico, in cui le chitarre planano in overdrive, è integralista e analogico, con riti che appartengono al secolo passato, come le pause infinite tra un pezzo e quello successivo: la band si prende il tempo per un’accordata, per una mezza sigaretta, per un sorso di vino, spezzando il ritmo della setlist, e mostrando quello che sembra essere una sorta di simulazione di sala prove, dove non c’è elettricità da live, dove il rapporto col pubblico si limita a un “faccaldi” e poco altro. Del resto siamo davanti a un pezzo di storia della musica americana, una band che gira con il pilota automatico. La setlist segue la traccia del tour, quindi ampiamente annunciata, copre tutti gli anni di attività della band e non scontenta nessuno. Sul palco sono in otto, ma diventano dieci sugli ultimi pezzi, quando i roadies imbracciano altre chitarre, arrivando a un totale di sei. Un piccolo wall of sound vecchia maniera, che chiude un live impeccabile.

In copertina foto d’archivio di Francesca Garattoni

Tutto pronto per i Moderat + Il Quadro di Troisi a Sequoie Music Park (Bologna)

MODERAT +
IL QUADRO DI TROISI
11 LUGLIO 2023

Tutto pronto al Sequoie Music Park per l’arrivo dei Moderat. Il supergruppo tedesco, formato dai Modeselektor (Gernot Bronsert + Sebastian Szary) e da Apparat (Sascha Ring) suonerà martedì 11 luglio al Parco delle Caserme Rosse a Bologna. Ambasciatori della musica elettronica berlinese, i Moderat si incontrano per la prima volta nel 2002 e dopo un primo EP, “Auf Kosten der Gesundheit”, pubblicato nel 2003, danno alla luce il primo album “Moderat” nel 2009. I bassi dei Modeselektor, le melodie di Apparat, la loro musica diventa subito di successo, “A New Error” è uno dei pezzi migliori dell’anno. Dopo aver pubblicato gli album “II” e “III” i Moderat si prendono una lunga pausa nel 2017, per poi tornare sulla scena musicale mondiale con More D4ta, ultimo lavoro uscito il 13 maggio 2022.
Nuovo album e di conseguenza nuovo live che si apprestano a portare sul palco di Sequoie Music Park

Il Quadro di Troisi
Il Quadro di Troisi è il progetto nato da Donato Dozzy (pioniere della techno italiana) e la cantautrice Eva Geist. Il nome deriva dalla passione comune di entrambi per Massimo Troisi. Concepito nel 2018, è poi stato portato a termine solo grazie a una fitta corrispondenza durante il periodo di lockdown nel 2020.
Il primo disco, è una riflessione sul mondo contemporaneo fusa con interi decenni di storia della musica, compresi e trasformati nel presente traendo ispirazione dalla eredità italo-disco e synth pop dei due artisti.

Sequoie Music Park fa parte di Bologna Estate 2023, il cartellone di attività promosso e coordinato dal Comune di Bologna e dalla Città metropolitana di Bologna – Territorio Turistico Bologna-Modena

Moderat – Martedì 11 luglio 2023
Sequoie Music Park – Parco delle Caserme Rosse
Via di Corticella, 147 – 40128 Bologna BO
Biglietti su www.ticketone.it e www.boxerticket.it
Lavoropiù Pit Area : 73,60 € + d.p.  – Posto Unico 46,00 € + d.d.p

IRON MAIDEN: orari e informazioni sugli ingressi per la data di Milano

IRON MAIDEN si esibiranno in concerto in qualità di headliner di The Return of the Gods Festival Milano, nell’unica data italiana di “The Future Past Tour”.

La band inglese suonerà sabato 15 luglio 2023 all’Ippodromo Snai San Siro in via Diomede 1, situato in prossimità della fermata LOTTO M1 (linea rossa) e M5 (linea viola).

Prima di loro saliranno sul palco Stratovarius, Epica, Blind Channel e The Raven Age.
Di seguito gli orari dei concerti e le informazioni logistiche.
 
ORARI:
14:00 – apertura cancelli
16:00 – The Raven Age
17:00 – Blind Channel
18:00 – Epica
19:15 – Stratovarius
21:00 – Iron Maiden

INGRESSI:
Ingresso Gold Circle: Via Caprilli
Ingresso Prato: Via Diomede
 
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INFO:
Come arrivare > https://milanosummerfestival.it/informazioni-e-contatti/
Parcheggi e altre info > https://milanosummerfestival.it/info-generali/
Regolamento dell’Ippodromo San Siro > https://milanosummerfestival.it/regole-del-msf/

Radiofreccia è radio ufficiale di The Return Of The Gods Festival.
Metalitalia è media partner di The Return Of The Gods Festival.
 

FAKE FEST • 13 luglio 2023 sulle spiagge di Bellaria Igea Marina (RN) • IDLES + The Murder Capital

All Things Live Italy presenta la prima edizione di FAKE FEST, il nuovo boutique festival dedicato alla scena alternativa mondiale che si terrà il 13 luglio 2023 sulle spiagge di Bellaria Igea Marina (Rimini). Uniche date estive per IDLES, The Murder Capital ed il dj set di Fabio Nitra, per riunire il meglio della scena indipendente che domina il panorama internazionale.

La location scelta per il festival sulla riviera romagnola è il Beky Bay: un’arena unica nel suo genere, uno spazio di oltre 3500mq che al tramonto si trasforma in un suggestivo teatro a cielo aperto, con un imponente palco che si affaccia direttamente sul mare, per l’evento alt rock dell’estate italiana.

I biglietti per il FAKE FEST sono disponibili solo sulla piattaforma di ticketing e discovery DICE.

IDLES
Nei 5 anni trascorsi dal rilascio di “Brutalism”, gli IDLES hanno collezionato traguardi eccezionali: un album alla numero uno in classifica, molteplici tour sold out e partecipazioni come headliners ai più importanti festival internazionali. Il secondo disco, “Joy as an Act of Resistance”, ha ulteriormente solidificato il nome della band nella scena musicale inglese e mondiale, spianando la strada per l’enorme successo di “Ultra Mono”, il loro primo album alla numero 1 nel Regno Unito. “CRAWLER”, uscito nel novembre 2021, è riuscito ancora una volta a soddisfare le aspettative dell’intera fanbase internazionale, elevando il sound della band a un nuovo livello attraverso brani più melodici e introspettivi. Durante la loro vertiginosa ascesa, gli IDLES sono riusciti a guadagnare un’ampia gamma di fan accaniti a partire dai loro primi successi con il supporto di Steve Lamacq e BBC 6 Music, del circuito indipendente di musica dal vivo e la comunità di AFGang, con i quali hanno successivamente realizzato il film “Don’t Go Gentle: A Film About IDLES”, rilasciato in tutto il mondo e presentato a diversi festival del cinema internazionali.

THE MURDER CAPITAL
I The Murder Capital hanno appena rilasciato il loro nuovo brano “Only Good Things”, una canzone d’amore che fa da anteprima alla nuova musica in arrivo. Il singolo, prodotto da John Congleton, è la prima uscita dopo l’acclamato debutto della band irlandese, When I Have Fears, che ha raggiunto la top 20 nella classifica inglese, la posizione numero #2 in Irlanda, e che è stato incluso nelle classifiche di fine anno di diverse testate internazionali, tra cui il The Guardian.
I The Murder Capital hanno anche fatto il loro ritorno sul palco quest’anno, esibendosi su palchi importanti come quelli del Primavera Sound, VYV Festival e Solidays, e aprendo i concerti dei Pearl Jam al British Summer Time. Queste performance seguono un tour sold-out in Europa e Inghilterra, che li ha portati a suonare il loro concerto più grande finora durante la data all’Electric Ballroom di Londra. La band suonerà a diversi festival in giro per l’Europa e l’Inghilterra durante l’estate

Biglietti solo su DICE
https://link.dice.fm/pe39a1a5d1e1 

IG FAKE FEST: https://www.instagram.com/fakefest_it/
 

RADAR Concerti è All Things Live Italy, segui tutti gli aggiornamenti 
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Knotfest Italy 2023

Bologna, 25 Giugno 2023

Sono le 10:30 di una domenica di giugno infuocata, soprattutto per la folla in coda ai cancelli dell’Arena Parco Nord di Bologna, pronta ad assicurarsi i posti in prima fila della prima edizione del Knotfest Italy. Purtroppo, con l’apertura delle porte ritardata di un’ora, non ho potuto assistere all’unica band italiana in apertura, i Destrage.

Direttamente da Glasgow, i Bleed from Within salgono sul palco più carichi che mai. La band melodic death metal/deathcore ci dimostra fin da subito una grande precisione nell’esecuzione dei pezzi. Oltre ai potenti riff, assoli, sinfonie orchestrali e bassi che fanno tremare il palco, ciò che mi ha sorpreso di più è la loro capacità di non perdere mai colpi dall’inizio alla fine della performance, senza tralasciare il coinvolgimento del pubblico, che già iniziava ad aprire un mosh pit bello aggressivo. Dopo una delle loro tracce più note, The End of All We Know, la band scozzese lascia il palco sotto numerosi applausi di tutti i presenti.  

Dopo circa mezz’ora, ci siamo lasciati travolgere dall’energia dei texani Nothing More. La band hard rock di Johnny Hawkins dà inizio allo show con SPIRITS, tratto dal loro ultimo album, che lascia intuire la potente adrenalina di cui son fatti questi ragazzi. Tutti si muovono sul palco in modo perfettamente sincronizzato, in un intreccio di riff pesanti, un cantato intenso e drammatico e parti di synth elettronico. Un Hawkings a torso nudo e ricoperto di una vernice rossa/nera, dà il suo meglio alla fine di This Is the Time (Ballast), scatenandosi in una performance pazzesca in cui suona delle percussioni mantenute con le mani dalle persone in prima fila. Ovviamente, nessuno perde l’occasione di alzare il telefonino per riprendere questo momento unico. 

La scaletta del festival ci concede un’altra pausa, prima di far salire sul palco i pionieri del symphonic blackened deathcore: i Lorna Shore. Pronti a presentarci le tracce del loro ultimo album Pain Remains, il cantante Will Ramos ci saluta con poche parole prima di sbatterci in faccia tutta la sua potenza vocale. La performance in generale è stata impressionante, ricca di impetuosi blast-beat, fantastici assoli e breakdown altrettanto devastanti, con l’incredibile versatilità di Ramos a completare questo fantastico show. Il gruppo ci lascia con Pain Remains I, II e III, e non potevamo chiedere un’uscita di scena migliore.

Poco dopo, il palco è pronto ad accogliere gli I Prevail, in Italia per la loro prima volta. Un intro elettronico precede il loro ingresso con Bow Down, che manda il pubblico in delirio. Il resto della setlist si concentra sul nuovo disco TRUE POWER, con cui riusciamo ad apprezzare il loro sound pieno di influenze nu-metal ed elettroniche, senza dimenticare i breakdown distruttivi che fanno scatenare la gente nel pit. Le interazioni con il pubblico non sono state moltissime, ma ho apprezzato l’uso delle cover come intro di alcune canzoni (es. Chop Suey dei System of a Down prima di FWYTYK), facendoci scappare anche qualche lacrimuccia durante Hurricane

Più tardi, cambiamo totalmente contesto: arriva l’ora dei vichinghi con gli svedesi Amon Amarth. Anche se il loro melodic death metal si discosta un po’ dal resto della line up, sono stati una delle band più attese del festival. L’allestimento del palco è in tema nordico: un elmo con le corna su cui poggia la batteria, un mostro marino gigante che spunta fuori durante Twilight of the Thunder God e una bandiera con un’imbarcazione come sfondo. L’esecuzione dei brani è impeccabile e lo show costruito nei minimi dettagli, in cui possiamo vedere un possente Johan Hegg che ci parla in un italiano quasi perfetto e brinda insieme a noi, corno alla mano, dopo uno “Skål” detto a gran voce. Personalmente avrei apprezzato un pizzico di cattiveria in più, ma nel complesso è stato molto intenso.

Smontato l’allestimento, gli amanti del metalcore (e non) si posizionano in attesa degli Architects. Il gruppo britannico, reduce di qualche critica sul recente cambiamento di stile e di nuove sostituzioni nella formazione, si fa subito perdonare dando inizio al concerto con Nihilist, mostrando tutta la cattiveria di cui sono capaci. L’abilità del cantante Sam Carter di alternare voce screamata e pulita è eccezionale come sempre, con una grande presenza scenica che lo contraddistingue dai frontman di altre band del genere. I più nostalgici hanno apprezzato l’inserimento di brani come Doomsday e Royal Beggars, ritrovando lo spirito degli Architects del passato. Il picco viene raggiunto quando Carter chiede a tutto il pubblico di fare stage diving durante Impermanence, che lo prende alla lettera e inizia a lanciarsi in aria fino ad arrivare oltre la transenna. Uno show pieno di energia e coinvolgimento emotivo. 

Finalmente, al calare della sera e dopo un’intera giornata passata a sopravvivere al caldo, è arrivato il momento di ascoltare i creatori stessi del festival. Gli Slipknot fanno il loro ingresso con il botto (nel vero senso della parola) e i 15.000 spettatori presenti impazziscono e urlano senza ritegno. Dopo le prime due canzoni, il cantante Corey Taylor si scusa con il pubblico della propria resa vocale un po’ calante, per un problema alla gola che gli sta creando qualche fastidio, ma la cosa non sembra impedirgli di dare il massimo. La band inserisce nella scaletta due brani dell’ultimo lavoro, The Dying Song (Time to Sing) e Yen, non apprezzati da tutti, ma sicuramente molto ben riusciti. Lo show prosegue per un’ora e mezza di puro delirio, fra i vari tentativi di Corey Taylor di parlare in italiano (con tanto di bestemmia urlata che fa impazzire il pubblico) e l’esecuzione di vecchi brani come The Devil in I, Psychosocial e Wait and Bleed. Durante il bis la band ci propone Duality e Spit It Out, ma per chi come me non li aveva mai visti dal vivo, non aver potuto sentire Before I Forget ha lasciato un pochino di amaro in bocca. Nonostante questo, ci hanno regalato davvero un bellissimo concerto, degno del loro nome.

Setlist Slipknot

(Rec) Death March
(Rec) Prelude 3.0
The Blister Exists
The Dying Song (Time to Sing)
Liberate
Yen
Psychosocial
The Devil in I
The Heretic Anthem
Eyeless
Wait and Bleed
Unsainted
Snuff
Purity
People = Shit
Surfacing

Encore

Duality
Spit It Out
(Rec) ‘Til We Die

Foto di copertina: Knotfest Italy, Aldeghi-Diotallevi

Porcupine Tree @ Piazzola Live Festival

Piazzola sul Brenta, 25 Giugno 2023

Dopo sette anni di stop (e se non faccio male i conti c’ero per quell’edizione ad onorare sua maestà Neil Young e quell’inizio da solo al piano a suonare After The Gold Rush) torna ad illuminare quello splendore di piazza Camerini a Piazzola sul Brenta il Piazzola Live Festival.

Un cartellone variopinto, diciamo così, se si pensa che all’interno della stessa rassegna trovano spazio i Placebo e Checco Zalone

Ma non facciamo i sofisti e veniamo al dunque, alla serata d’apertura (e la più – dal sottoscritto – attesa) affidata ai leggendari Porcupine Tree.

La creatura di Steven Wilson, in Italia per una manciata di date (l’altra a Roma), si presenta sfortunatamente in formazione rimaneggiata, orfana qual è del basso di Nate Navarro, rientrato precipitosamente negli Stati Unitiper una “serious family crisis”, come spiegato ad inizio serata dal frontman.

Il rammarico si ferma comunque qui, potendo comunque gioire delle tastiere di Richard Barbieri, della chitarra e della (magnifica) voce di Randy McStine e soprattutto di sua maestà Gavin Harrison, batterista neo sessantenne da ormai più di vent’anni dietro alle pelli nei Porcupine Tree, che alterna a piccole distrazioni come i Pineapple Thief e tali King Crimson.
Difficile dire chi sia il più atteso della serata tra lui e mister Wilson.

Ad ogni modo sono da poco trascorse le 21, c’è ancora una discreta luce ma accolti da un folto (e forzatamente seduto) pubblico ecco i nostri guadagnare il proscenio.

Per ultimo, rigorosamente scalzo, arriva l’occhialuto artista proveniente da Kingston upon Thames, imbracciata la sua chitarra dorata dà il via sulle note dirompenti di Blackest Eyes, opening anche del loro album In Absentia (disco che vide per altro l’esordio proprio di Gavin Harrisoncon i Porcupine Tree), risalente al lontano (sic) 2002.

Nonostante un’alchimia ben evidente sul palco ed un Wilsondecisamente loquace (oltre alla spiegazione per l’assenza di Nate esprime un certo qual “rammarico” per suonare di fronte ad un pubblico seduto, invitando tuttavia a rimanere seduti, o ad alzarsi solo se non si preclude la vista a chi sta dietro…) forse causa anche di un qualche problema in regia luci e dei visual che personalmente perplimevano, la prima parte del live fatica un pò a scaldare i seduti astanti. 

Con le prime note di Open Car però si cambia registro, tutto si alza di livello, i decibel, le luci, Gavin Harrisonche inizia a sciorinare il suo sconfinato repertorio, Wilson col tipico humour inglese che si autocelebra introducendo The Sound Of Muzak “written by a visionary” indicando se stesso, e che con l’andare del tempo cerca sempre con maggior insistenza alla sua destra Randy McStine, mentre Barbierinelle retrovie mantiene questo bolide chiamato Porcupine Tree in strada.

La scaletta è serrata, si passa dal faccione a tutto schermo di Marshall Applewhite durante Last Chance to Evacuate Planet Earth Before It Is Recycled al capolavoro Anesthetize, “this is a long song” cit., per concludere con Sleep Together, prima degli acclamati bis.

Steven Wilson rientra accompagnato solo dal fido Richard, e i due si esibiscono in una toccante Collapse The Light Into Earth, al termine della quale arriva finalmente il rompete le righe e la gente si ammassa sotto il palco, per la doppietta finale Halo e Trains.

Oltre due ore di grande, grandissima qualità, da parte di una band che ha per davvero la musica al centro del proprio credo. E di questi tempi non è cosa da poco.